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Ci ha lasciato Wanda Canna

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Ci ha lasciato Wanda Canna, 98 anni, staffetta garibaldina, depositaria di valori forti come la democrazia e la libertà, capace di trasmetterli per anni ai giovani raccontando la storia della Resistenza.
Il funerali si è svolto giovedì mattina (20 febbraio) nella chiesa parrocchiale di Borgosesia.

La Cgil Vercelli Valsesia aveva intervistato Wanda Canna nel 2018, in occasione del 25 Aprile – Festa della Liberazione. Riproponiamo integralmente l’intervista pubblicata su La Voce dei Lavoratori.

 

Wanda Canna, partigiana combattente della Valsesia

«Sono passati troppi anni, per questo i ragazzi oggi fanno difficoltà a capire il significato del 25 Aprile, ossia un mondo diverso da quello di adesso». Così la pensa Wanda Canna, staffetta partigiana della Valsesia, classe 1921.
Il 25 aprile lei lo celebra in memoria del coraggio di quei poveri ragazzi che ci hanno lasciato la pelle, soffrendo la fame, il freddo, la paura e combattendo per la libertà. Anche la sua, di pelle, Wanda l’ha messa a rischio più volte ma «mi è sempre andata bene», racconta la partigiana oggi novantaseienne. La sua memoria è lucida e i suoi occhi (ma anche i nostri) luccicano sovente, nel sentirle «certe storie… che oggi sembrano impossibili», racconta sospirando, la staffetta partigiana.
Terza di sei fratelli, quattro maschi e due femmine, è figlia di Antonio Canna, socialista e antifascista attivo, una persona severa ma giusta. Ancora adesso, a distanza di tanto tempo, chi lo ha conosciuto ne parla con stima e onestà per non avere mai rinnegato il proprio ideale che gli fu anche causa di sofferenza, carcere e confino.
«Da nostro padre abbiamo imparato quanto fosse importante lottare per far capire la propria idea, spiega Wanda. Come partigiani, noi abbiamo combattuto per fa capire che la libertà è importante, soprattutto quella di pensare liberamente».

Gli anni della lotta partigiana
Quando è iniziata la lotta partigiana, Wanda Canna abitava a Coggiola, era già spostata e i suoi suoceri non erano d’accordo che lei fosse una staffetta. «Mio marito era soldato in Russia, mentre io allora lavoravo come tessitrice alla Bozzalla e Lesna. Era il 1943. Quando tornò dalla guerra, si stupì molto del mio incarico di staffetta ma non mi disse nulla, anche perché sapeva benissimo che se avesse espresso contrarietà, io non l’avrei comunque ascoltato».
«All’inizio, mio padre fu indotto a pensare che avessi sposato un fascista. Tutto perché quando il Duce venne in Valsessera, un 1° maggio, mio marito e io andammo in piazza: lui indossava una divisa militare con pantaloni scuri e corti e fu scambiato per uno del fascio. Chi era presente, lo raccontò a mio padre che volle subito sapere come stavano le cose. Solo dopo averlo incontrato venne rassicurato: capì che quella che indossava era effettivamente una divisa militare».

A quei tempi si trasportava di tutto
La scelta di una donna, di aderire alla lotta partigiana, era ben diversa da quella di un uomo, che nella maggior parte si trovavano di fronte a un bivio obbligato, ovvero decidere da quale parte stare. Wanda scelse di essere una staffetta perché lo voleva. E nel suo ruolo di “corriere” portò tutto ciò che occorreva ai primi partigiani: viveri, soldi, documenti. Ha trasportato, tra il biellese e la Valsesia – le zone che dovevano mantenere un costante collegamento – anche delle persone.
«Spesso partivo con un sacchetto di lana da filare: se mi avessero fermato, potevo dire che andavo a tessere la lana. Una volta giunta a destinazione, mi aspettavano con un sacchetto pieno di lana già filata, che riportavo indietro, a giustificazione del mio viaggio. A volte, invece, partivo con della biancheria pulita, per poi tornare con della biancheria sporca: era la scusa che usavo quando dicevo che andavo a trovare qualcuno in ospedale».
È capitato anche che accompagnasse degli inglesi. «Ricordo che durante un viaggio, incontrai un inglese che voleva assolutamente comunicare con noi, ma non riuscivano a capirci. Allora mi venne in mente di usare l’alfabeto Morse, e gli proposi di comunicare con quel codice. Non ci pensammo troppo e facemmo delle prove, senza riflettere sul fatto che lui avrebbe sì usato l’alfabeto Morse ma nella sua lingua, e non ci saremmo capiti comunque. Fu un episodio che, ancora oggi, ricordo con il sorriso».

La sua bicicletta
«Sia la mia prima bicicletta che la mia prima borsa, me le diede Moscatelli, comunista e antifascista, nominato comandante della squadra “Garibaldina” della Valsesia. La borsa era scura, molto vecchia e aveva i manici lunghi, troppo lunghi per me che sono piccina. Me la sostituirono subito con una con manici più corti, una cerniera che sembrava oro e il doppio fondo. La bicicletta invece era azzurra. Di solito nascondevo tutto nella borsa. Poi scoprì un altro stratagemma. Fu quando Moscatelli mi diede da portare molta posta. Dovevo attraversare due fiumi: il Sessera e il Sesia, e allora pensai che era meglio distribuire dovunque la roba da trasportare.
Così cominciai a smontare la sella della bici, poi il campanello… Nella sella infilai della carta e nel tubo dell’altra posta, agganciata a un peso con una corda di lunghezza giusta, in modo che poi fosse facile tirarla fuori.
Nel campanello, una volta nascosi del nastro di seta lucido, che seppi poi contenere dei messaggi speciali. Per trasportarlo cambiai il campanello originale della bici con uno più grosso: suonava un po’ malamente, ma almeno mi dava la possibilità di non far vedere il nastro lì nascosto. L’ultimo messaggio sul nastro di seta, me lo diedero degli americani nel Biellese. Lo misi nel fanale, e dal biellese lo portai fino in Valsesia, dove mi spararono addosso».

I posti di blocco
Wanda non mai contato quanti posti di blocco ha attraversato.
«Probabilmente era destino che arrivassi sempre a destinazione. Quando mi portavano la merce a Coggiola, proseguivo fino a Borgosesia, e poi Valduggia. Attraversavo il biellese, la Sesia, la Serra d’Ivrea, sempre in bicicletta. Una volta ero insieme a un americano, e aprirono il fuoco. Era tardi, le sei di sera. Il Comando ci aveva dato appuntamento sopra Valduggia. A metà del Sesia sentimmo degli spari. L’americano s’impaurì tanto da scappare di corsa, ma io lo persuasi a continuare il nostro cammino, come se niente fosse. A volte sparavano anche solo per spaventare la gente. In quell’occasione, se fossimo scappati, li avremmo certamente insospettiti. Camminando normalmente, invece, avremmo fatto intendere loro che eravamo persone sulla strada del lavoro. Riuscimmo così ad arrivare dall’altra parte. Fu la volta in cui trasportammo una ricetrasmittente. Io non conoscevo quasi mail il contenuto della merce che trasportavo. Poi, arrivata a destinazione, a volte me lo dicevano. L’unica cosa che mi dissero prima di partire con la ricetrasmittente fu questa: “Qualsiasi cosa succeda, tu non farti prendere”».
 
L’impegno in fabbrica
Per Wanda lottare per difendere un principio diventò presto una ragione di vita. In tempo di guerra, gli uomini erano richiamati dall’esercito e le donne si trovavano spesso a fare anche il loro lavoro in fabbrica. «Lavoravo alla Bozzalla e Lesna di Coggiola quando incominciai a discutere con delle altre tessitrici che la differenza di salario, tra noi e gli uomini, non era giusta dato che facevamo lo stesso lavoro. Ne discutemmo con il direttore dell’azienda che, subito subito, non fu molto d’accordo ma quando minacciammo uno sciopero bianco, allora si convinse. Abbiamo ottenuto poco, ma qualcosa l’abbiamo portata a casa. La domenica, ad esempio, ci autorizzarono a raccogliere un po’ di legna nei boschi attigui alla fabbrica, quella stessa legna che prima dovevamo pagare: una sorta di “premio di produzione” dato a tutte le operaie». L’attività partigiana portava spesso Wanda ad assentarsi dalla fabbrica. Per questo venne anche rimproverata dal direttore, che la accusò di essere sempre assente data la sua attività di borsa nera. «Lo raccontai al Moscatelli che mi diede, insieme alla solita posta da consegnare, anche una busta per il signor Ugo, direttore dell’azienda… La busta conteneva una lettera con le dovute spiegazioni. La leggemmo insieme, il signor Ugo e io, nel suo ufficio. Capì perché mi assentavo, mi fece le sue scuse e non venni più rimproverata».

Essere partigiani oggi
Quando Cino Moscatelli si ammalò, Wanda andò spesso a trovarlo in ospedale. «Molte volte abbiamo discusso della nostra lotta: io ero davvero convinta che fosse tutto finito e che tutti avessero capito. Invece non è stato così. Avremmo dovuto spiegare che noi non abbiamo lottato per uccidere: certo, c’era la Guerra, o noi o loro, ma avremmo dovuto far capire che abbiamo combattuto per avere il diritto di parlare, e di farci le nostre ragioni. Oggi è un momento un po’ difficile per farlo comprendere: mi sembra che la gente abbia poco coraggio per dire esattamente come la pensa, e certi valori sono ormai andati perduti. Spesso sento dire che i partigiani erano tutti comunisti: non è vero! Noi partigiani eravamo tutti antifascisti, che è diverso. Ma anche in questo caso, oggi il significato è molto cambiato».

Emanuela Celona

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