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La storia di una conquista

La conquista delle 8 ore

All’indomani dal compimento dell’Unità d’Italia, il Piemonte conservava intatta la sua fisionomia di regione essenzialmente agricola. Nel 1871 su cento abitanti, quaranta erano addetti all’agricoltura. Molto difficile era la condizione dei contadini che vivevano nelle zone di montagna, dove la proprietà non dava da vivere, ma non meno dura quella di chi viveva nelle zone collinari dove la terra, anche se in possesso
di chi la coltivava, era frammentata in piccoli appezzamenti. Non che al piano si stesse meglio: parecchi coloni erano ridotti alla condizione di sciavandé, a salariati fissi.
All’industria provvedevano i piccoli centri e le borgate rurali. Un po’ di lana, di lino o di seta veniva prodotta quasi ovunque in Piemonte; e piccoli quantitativi di ferro o di altri metalli alimentavano una gran quantità di fornaci e fucine dislocate lungo i corsi d’acqua. Anche nel caso delle fabbriche meccanizzate, l’ubicazione dell’industria dipendeva dalla possibilità di reclutare manodopera e dalla presenza di torrenti da utilizzare come fonti di energia.
Le condizioni dei lavoratori, e dei contadini in particolare, erano condizioni disumane. Servitù della gleba, orari dall’alba al tramonto, fanciulli piegati dalla fatica, nessun accordo sindacale, nessuna legge protettiva.
I salari erano fissati dal padrone a sua discrezione, ed erano salari di fame. La mortalità infantile era altissima, l’analfabetismo dilagante. Disperata la fuga oltre oceano alla ricerca di pane.
Nel Vercellese la nascita delle organizzazioni operaie e contadine ebbe un carattere sporadico e spontaneo e il crescente disagio dei ceti più diseredati assunse più volte il segno di protesta disordinata, di ribellione individuale. La crescita dell’organizzazione operaia e contadina non fu tanto facile: dovette infatti superare una tenace
opposizione borghese e una mentalità diffidente, egoistica abituata ad un atavico servilismo.
Le masse popolari vercellesi presero coscienza della loro forza con lenta gradualità e si organizzarono sindacalmente e politicamente a mano a mano che si modificarono le condizioni generali dell’Italia. I primi scioperi a Vercelli avvennero nelle fabbriche dei bottoni nel 1879; ma qualche anno dopo anche nelle campagne si segnalarono agitazioni per ottenere miglioramenti di salario. Nel 1882 a Vettignè e a Santhià i mondariso scioperarono per qualche giorno. Negli anni che vanno dal 1882 al 1890 incominciò ad avere riflessi politici il fiorire del corporativismo e delle società di mutuo soccorso, che iniziarono ad operare secondo una concezione più ampia della semplice assistenza e solidarietà.

Testi di Sergio Negri e Franco Negro

 

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Nel 1882 vi fu un rilevante progresso politico con il miglioramento della legge elettorale, che aumentò il numero di chi aveva diritto al voto: L’età per poter votare venne abbassata da 25 a 21 anni, il censo da 40 a 19 lire e 80 e il requisito dell’istruzione al saper leggere e scrivere.
In questi anni, Mario Guala, figlio dell’on. Luigi Guala, cominciò a diffondere l’idea cooperativa fra i lavoratori, convinto che la cooperazione fosse un modo pacifico di elevazione morale. Poi inizia ad organizzare i mondariso, soprattutto per difenderli dalle organizzazioni emiliane che portavano nel Vercellese manodopera più disciplinata e a minor costo. Nel 1893 si organizzò una manifestazione a Vercelli che doveva svolgersi il 10 di luglio con lo scopo di rivendicare il salario di 2 lire giornaliere per le mondariso. Fino ad allora il salario giornaliero era di una lira e 10 centesimi al giorno dall’inizio della monda fino a maggio e di una lira e 80 centesimi al giorno nel mese di giugno.
In questo periodo i lavoratori, vittime ogni giorno della miseria e delle sofferenze, presero coscienza delle loro condizioni e diedero vita alle prime “Leghe di miglioramento contadino”.
Il Vercellese si dimostrò subito terra fertile anche per il proselitismo politico. Il Partito Socialista fu l’elemento trainante. Nel marzo del 1895 da parte dei Presidenti della Società Cooperative di Mutuo Soccorso di Vercelli e del Monferrato venne avanzata la proposta di istituire la Camera del Lavoro di Vercelli
Nel 1897 incominciarono a divenire più organiche e politicizzate le rivendicazioni contadine; vi furono agitazioni a Livorno e a Santhià, dove le autorità sciolsero il circolo socialista e ne processarono i dirigenti.
Nello stesso anno nelle elezioni politiche i socialisti si rivelarono una forza con cui presto si sarebbe dovuto fare i conti: nonostante le difficoltà a svolgere propaganda, i candidati socialisti ottennero un discreto successo. I socialisti si erano preparati con cura alle elezioni: il circolo socialista di Vercelli aveva istituito una scuola per insegnare a leggere e a scrivere agli elettori che non possedevano certificati scolastici, per abilitarli ad affrontare l’esame richiesto dalla legge per l’iscrizione alle liste elettorali.
Anche per il Vercellese, come per l’Italia, il 1898 fu un anno economicamente difficile. Il prezzo del pane salì con gravi conseguenze per le classi più povere. Il primo maggio a Vercelli vi furono disordini, anche se senza gravi conseguenze: Ma, a causa dei gravi e sanguinosi fatti di Milano, con il massacro dei dimostranti ordinato dal Generale Bava Beccaris, e per la paura di una congiura socialista, vi furono perquisizioni e arresti. A Vercelli, all’alba dell’8 maggio furono arrestati il prof. Antonio Piccarolo e l’avv. Modesto Cugnolio, che allora era presidente della Consociazione Cooperative Vercellesi, dopo la morte di Mario Guala; furono inoltre perquisiti alloggi di appartenenti al Circolo Popolare Socialista.
Alla fine del mese di maggio, precisamente il 29, a Trino scoppiarono gravissimi tumulti provocati dai mondariso in seguito all’affissione di un manifesto che stabiliva la paga per la monda del riso a 80 centesimi al giorno. Si formarono grandi cortei di manifestanti, venne inviata la cavalleria, si effettuarono 30 arresti seguiti da processi che inflissero pene da 2 a 12 mesi di carcere. Nei primi anni del ‘900 Vercelli era ancora sotto la preponderanza politica di una ristretta cerchia di agrari conservatori guidati dall’on. Piero Lucca.

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Il 1° dicembre 1900 uscì il primo numero del giornale “La Risaia” che, ad eccezione degli anni del periodo fascista e poche interruzioni, rappresenterà per ottant’anni il pensiero del socialismo vercellese.
Dal 1902 in poi, le leghe contadine nelle campagne e la Camera del Lavoro in città furono in grado di contrattare efficacemente con la parte padronale. Quasi sempre ogni accordo per la monda o per il taglio del riso fu preceduto da agitazioni e scioperi, nei quali i lavoratori dimostrarono una crescente solidarietà e una sempre maggior capacità di resistenza.

Nel 1904, sull’onda dello sciopero generale noto come la “settimana rossa” proclamato dal partito socialista, i contadini del Vercellese si astennero dal lavoro. Chiesero soprattutto che il padrone rispettasse il “Regolamento Cantelli”. In questo documento che gli agrari nascosero perché non intendevano applicarlo, c’era un capoverso che riguardava l’orario di lavoro il quale: “non può iniziarsi se non un’ora dopo il levar del sole” per cessare “un’ora prima del suo tramonto”.
Appare evidentemente, un “miglioramento” alle condizioni disumane imposte ai mondariso. Nonostante le precauzioni dei padroni, l’avv. Modesto Cugnolio, segretario della Federazione Agricola, ne viene in possesso. Il rispetto del “Regolamento Cantelli” diventa un obiettivo di lotta. I lavoratori incominciarono a battersi per ottenere condizioni di lavoro più umane: otto ore di lavoro giornaliero.
Ma la reale situazione è ben lontana da quanto indicato dal “Regolamento Cantelli”. Alla frazione Montonero, per esempio, è vecchia usanza iniziare il lavoro alle quattro e mezzo e terminare alle quindici, dopo nove ore. A Cascine San Giacomo la campana del Comune suona, per dare il segnale dell’inizio del lavoro, addirittura alle quattro meno un quarto.
A Olcenengo, durante la trebbiatura del riso, viene offerto lavoro gratuito di notte, per due o tre voltela settimana.
Il 1° maggio del 1906 “La Risaia” proclama: “Il nostro programma è tutto nelle tre otto: otto ore di lavoro, otto ore di svago e otto ore di riposo. Questa è la battaglia dei socialisti!”.
Il 1906 è l’anno della lotta più dura. Già nel febbraio, prima che inizi la campagna agricola, si parlò sui giornali della legge sul lavoro delle risaie che dovrebbe ridurre l’orario di lavoro. Le preoccupazioni degli agricoltori di Novara e di Vercelli ebbero il potere di non far fare passi avanti al provvedimento legislativo.

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Allora, negli ultimi giorni di maggio scoppiarono le prime agitazioni: in molte località i lavoratori delle risaie incrociarono le braccia. Ne dà notizia “La Sesia”: “A Tricerro, Ronsecco, Olcenengo, Salasco, Tronzano, Crova e Formigliana i contadini si sono messi in sciopero, essenzialmente per la questione dell’orario, esigendo le 8 ore nei lavori della monda”.
La situazione è molto tesa. Uno degli animatori di queste battaglie è l’avvocato Modesto Cugnolio. Nato da una ricca famiglia borghese, dopo aver studiato giurisprudenza, si avvicina all’ideale socialista. Difende militanti del partito e i contadini finiti sul banco degli accusati per aver attentato alla “libertà del lavoro”, in altre parole per aver scioperato e aver convinto altri ad astenersi dal lavoro.
Il 24 maggio si registrarono le prime manifestazioni di lotta: a Ronsecco una colonna di scioperanti preceduti da numerose donne con bandiere rosse percorsero il paese gridando: “Vogliamo le otto ore!” Un accordo fra le parti sembrò irraggiungibile. La protesta si estese; alla fine di maggio molti paesi furono paralizzati dalle agitazioni. A Ronsecco, Tronzano, Balocco, Crova, Tricerro, Santhià, Olcenengo, Salasco e Buronzo non si lavora.
A San Germano, i lavoratori che avevano abbandonato i campi furono più di un migliaio: a Tronzano arrivò uno squadrone di cavalleria; e la cavalleria a Buronzo protesse i contadini forestieri intenti al taglio dei prati.
L’Associazione Agricoltori esaminò la situazione ma dichiarò di non essere disposta a cedere. Non essendoci possibilità di accordi, gli scioperi ripresero con maggior vigore e accaddero i primi incidenti.
A Ronsecco 300 contadini, tra cui molte donne, con bandiere rosse si avviarono verso un cascinale per far desistere dal lavoro i mondariso forestieri; un drappello di cavalleria riuscì a sbarrare il passo e si evitò un serio conflitto. Soldati e contadini furono costretti a fronteggiarsi; si ripetè così il solito gioco dei potenti: opporre morti di fame a morti di fame.
A San Germano la cavalleria disperse gli scioperanti; a Pezzana arrivò una compagnia del 53° fanteria; a Caresanablot intervennero i carabinieri.
Al grido di “Vogliamo le otto ore” un gruppo di mondine scese in città. Le donne si portarono prima alla Camera del Lavoro, poi in municipio.
Il 1° giugno a Vercelli scoppiarono gravi incidenti. La città fu presidiata militarmente.

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Fin dalle 5 del mattino una colonna di scioperanti si portò al Belvedere, fermando gli operai che si stavano recando al lavoro. Si chiusero subito le fabbriche Béllia e Maggia, Società Vercellese Concimi, Lombardi, Giana e Graziano. Gli scioperanti intimarono la chiusura della fabbrica di argenteria Muggia; delle officine Bosetti (carradore); Bologno, Gariboldi, Albertini (scalpellini); Treves, Segre, Mazzucchelli (bottoni); Rossa (caffè cicoria); Pavia (fabbro-ferraio); Pratta, Aglietti, Bonifacio, Segre e Marzano,
Carbone, Racca, Fortina, Negri (argenteria); Levi e Treves, Levi e Trinchero (brillatura del riso); le tipografie Coppo, Gallardi e Ugo Chiais.
I tumulti del 1° giugno furono forse i più gravi e violenti di tutta la lotta per la conquista delle otto ore. Si sparse la voce che nel corso di un incontro tra le rappresentanze degli agrari e delle organizzazioni contadine era stato raggiunto un accordo. La notizia, tra l’incredulità della folla, venne confermata dal balcone del Comune da parte del sindaco Dusnasi e dall’operaio Somaglino. Nella palestra S. Andrea Somaglino e Cugnolio informarono che le parti si erano accordate sulla base di una paga oraria di 25 centesimi; da quel momento le squadre sarebbero state libere di lavorare per otto o per nove ore al
giorno.
La mattina successiva, sabato 2 giugno, riesplose la scintilla: non tutti i padroni furono disposti ad accettare gli accordi. Si formò un corteo che fece il giro delle fabbriche per invitare gli operai ad abbandonare il lavoro. Le officine si svuotarono, i negozi chiusero: fu lo sciopero generale. Iniziarono tafferugli, si fecero barricate. Ci furono degli arresti, si sparsero false voci che diedero per morti due lavoratori.
I rappresentanti dei lavoratori riuscirono però a riprendere in mano la situazione; una commissione si recò in municipio per trattare. Alle 16,30 vennero comunicati i risultati dell’incontro: si assicurò che presto si sarebbero affrontati e risolti i problemi.
La domenica trascorse tranquilla, anche se tutte le strade furono pattugliate. Ma in alcune località, come Carisio, Livorno, Stroppiana, Prarolo, Desana, Rive Pertengo, Leri, c’era ancora fermento. Corse la voce che si stavano eseguendo degli arresti nei confronti degli scioperanti che presero parte all’agitazione di Vercelli.
Gli avvenimenti che si susseguirono nel Vercellese, anche se avevano portato un parziale successo per quanto riguardò l’orario di lavoro, non avevano determinato una accelerazione dei provvedimenti legislativi che furono sempre fermi in Parlamento. Procedette celermente, invece, la giustizia: in seguito ai disordini che avevano caratterizzato le giornate di sciopero generale, trenta lavoratori furono messi sotto inchiesta.
Quattro furono prosciolti in istruttoria e ventisei vennero condotti davanti ai giudici.
Il processo iniziò il 26 luglio. Il 28 la sentenza: cinque assoluzioni e 21 condanne a pene varianti da 10 mesi a 2 mesi e 15 giorni di carcere, oltre a multe piuttosto elevate.
Ma le pesanti condanne non servirono come deterrente per bloccare le rivendicazioni dei contadini e degli altri lavoratori. Nel mese di agosto si astennero dal lavoro i mietitori e i salariati di Salasco, Crova, Strella, San Germano, Tronzano, Santhià, Casanova Elvo, Olcenengo e Formigliana. I braccianti espressero in questo modo la loro solidarietà ai lavoratori della risaia. Scioperi furono proclamati anche a Livorno, Palazzolo, Trino, Albano, Bianzè, Lamporo, Vercelli e Villarboit.
Per limitare i danni i padroni fecero ricorso a squadre forestiere, ma questa volta i mondariso che arrivavano da fuori fecero causa comune con gli scioperanti.

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Nella terza settimana di agosto i paesi fermi per lo sciopero furono trentuno; gli scioperanti più di ventiseimila. I contadini chiesero un aumento della paga: 5 lire e 50 centesimi per gli uomini, 3 lire e 50 centesimi per le donne. Lo sciopero andò avanti per quasi una settimana, con qualche incidente, meno violento, però, di quelli di maggio-giugno.
Riferendo sullo sciopero di San Germano, così scrisse “La Sesia” : “Oggi è stato dichiarato lo sciopero generale. Oltre ai mietitori del riso e i salariati, hanno scioperato per solidarietà pilatori, muratori, garzoni falegnami, ecc. Sul paese pare sia sceso un vento di morte; tutti i negozi sono chiusi stamane alle ore otto; restano solo aperti gli spacci di tabacco e le farmacie…”
I rappresentanti delle parti si riunirono presso l’Associazione degli Agricoltori. Per i contadini era presente l’avvocato Cugnolio ed una rappresentanza della Lega di Vercelli. Dal momento che erano presenti solo i conduttori di fondi agricoli di Vercelli, la delibera riguardava solo i lavoratori di questo comune: “La giornata fu fissata in 8 ore di lavoro utile per la mietitura; mercede della giornata: lire 5 uomini, lire 3 le donne; libertà di contrattazione di orario e di paga per i lavori dell’aia e della trebbiatura; per il lavoro straordinario sull’aia, esclusa la portura dei sacchi, lire 1,10 gli uomini, lire 0,65 le donne per ogni ora di lavoro, ma non oltre le due ore”.
I paesi in cui si raggiunse, frattanto, un accordo di massima furono 16; quelli in cui la vertenza era ancora in corso erano 17. Lo sciopero terminò verso la fine di agosto, in concomitanza con la firma di altri accordi.

Anche per il 1907 la prospettiva non apparve rosea: nonostante quanto era successo negli ultimi tempi, gli agrari non intendevano cedere. La questione delle otto ore era ancora al centro degli scontri tra le rappresentanze delle due parti. Nel marzo ci furono altri scioperi.
La legge sulle risaie venne intanto discussa dall’apposita commissione parlamentare. Turati si battè per le otto ore, ma gli altri componenti della commissione si opposero. Venne allora proposto l’orario unico per i lavoratori locali e forestieri. Anche quella proposta fu bocciata. Gli orari dovranno essere i seguenti:
nove ore per i locali, dieci per i forestieri, senza distinzione di sesso né di età. La commissione accettò solo alcuni emendamenti sollecitati da Turati a favore delle lavoratrici incinte.
Le organizzazioni contadine si opposero alla decisione della commissione: le Leghe non intendevano rinunciare alle otto ore e all’abolizione del cottimo. Piuttosto che rinunciare al nuovo orario, i mondariso erano disposti ad emigrare. Ci furono ancora scioperi e scontri, anche se di minor violenza.
I contadini non cedettero. I padroni avevano ormai compreso che la partita era perduta e in tutto il comprensorio furono accettate le otto ore. Da quel momento in risaia il lavoratore finalmente non sarà più costretto a lavorare senza interruzione
dall’alba al tramonto.

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